2017, Russia. Una statua di Lenin con il braccio teso punta verso un orizzonte di neve e nebbia; tutto intorno rovine di acciaio e cemento, scheletri di grattacieli abbandonati, ponti autostradali mai terminati e persone alla deriva che si muovono senza meta per questo mondo surreale, dove le vecchie certezze non contano più, gli amici e i parenti sono scomparsi, gli ideali sono stati spazzati via dal vento. Alexey German Jr. con il suo gigantesco Under Electric Clouds (Pod electricheskimi oblakami) aspira a condensare cent’anni di storia russa, dal 1917, anno della Rivoluzione d’Ottobre, ad un desolato, ma non troppo fantascientifico, 2017, racchiudendo in sette episodi lo stato spirituale del proprio paese in un film dal forte potere simbolico che riesce a fornire allo spettatore una quantità di stimoli intellettuali impressionante.
La dimensione di percorso onirico sul quale sono fondati i sette capitoli che compongono Under Electric Clouds descrive una Russia in cui non esiste più una forma di presente vivibile, dove rimangono solamente i resti di una civiltà morente ed incapace di rinnovarsi dopo un secolo di fallimenti. Il cineasta russo sceglie di iniziare l’opera scegliendo come protagonista del primo capitolo uno straniero, un uomo di nazionalità kirghisa, che non conosce una parola di russo e percepisce come incomprensibile il mondo in cui è immerso. In questo modo il film sembra voler richiedere allo spettatore lo stesso sforzo che l’uomo deve compiere per cercare di non soccombere a ciò che dovrà avvenire. In tal senso può essere letto anche il capitolo successivo, in cui la protagonista è una donna scappata dalla propria madre patria, costretta a tornarvici a causa della morte del padre. Lei, che per problemi all’udito è obbligata ad indossare un apparecchio acustico, diventa metafora di un ulteriore invito nei confronti del pubblico a non “tapparsi le orecchie”, provando ad ascoltare la faticosa riflessione un paese agonizzante. Da qui inizia il viaggio il Under Electric Clouds, che, seguendo le traiettorie di personaggi condotti dal regista ad entrare e ad uscire dai vari capitoli senza soluzione di continuità, sfrutta i propri protagonisti talvolta per permettere al pubblico di osservare le rovine immaginifiche di cui sono composti gli scenari del film, talvolta per dare un significato alla dimensione temporale attraverso i dialoghi, nei quali viene inglobata tutta la cultura russa degli ultimi cento anni.
Da questo punto di vista le persone che abitano il film sono solamente in parte i protagonisti del ragionamento, e assumono un vero significato solamente quando entrano in relazione con lo spazio ed il tempo, due dimensioni con le quali l’uomo di oggi non riesce più ad entrare in sintonia. Così i grattacieli vuoti e le costruzioni incomplete rafforzano costantemente l’idea di una società impossibilitata a costruire una qualsivoglia forma di futuro su delle basi che siano solide, dovendo convivere con una realtà in cui non esiste un presente che non guardi costantemente ai fallimenti del passato. La regia, che accompagna il vagabondare dei personaggi con lunghissimi carrelli laterali, descrive, con un andamento lento e poetico, uno scenario che verrebbe quasi da definire post-apocalittico, e che sicuramente non sembra più adatto ad ospitare l’uomo.
Ad incrementare ulteriormente la dimensione onirica degli spazi fisici descritti dal regista russo è l’idea che Under Electric Clouds costruisce del tempo: un elemento che vede unificato il secolo raccontato in un unico momento, ovvero il presente, che però rimane schiacciato dal peso insostenibile del passato, vedendo così preclusa ogni possibilità di futuro.
Ed è proprio questa concezione del tempo che differenzia la pellicola di German da un altro film visto in concorso alla 65ª Berlinale, il Knight of Cups di Terrence Malick: nonostante la presenza di un filo rosso che accomuna le due opere – la volontà di trasmettere una sensazione di inabitabilità della città contemporanea -, nel film del regista texano prevale un’idea di presente frammentato e totalmente staccato da una qualsivoglia linea temporale, mentre in Under Electric Clouds il fattore tempo riempie di significato qualsiasi discorso affrontato: in ogni dialogo ed in ogni pensiero del film russo, German amalgama elementi provenienti dal passato e dal presente, non facendo distinzione tra citazioni provenienti dalla Cultura più “sacra” ed inviolabile e ballate dedicate ai cagnolini di Mickey Rourke, riuscendo così a dare l’impressione di una temporalità appiattita in un unico istante che si deposita sulle rovine della città e sulle vite dei personaggi.
Attraverso le parole dei suoi personaggi, che come già detto contengono quasi un secolo della cultura di uno dei paesi più complessi al mondo, il film acquisisce un’aura di incomprensibilità che a tratti incute non poco timore, ma che d’altra parte stimola una serie di riflessioni che lo spettatore più interessato può portarsi dietro per una vita intera. Ed è proprio il perdersi in discorsi a tratti quasi indecifrabili che rinnova continuamente l’interesse nei confronti di ciò che viene raccontato, riuscendo, a partire da un percorso storico e sociale unicamente russo, a trasformarsi in un pensiero dal carattere universale che non può di certo lasciare indifferenti.