Il giorno dei trifidi: quando non erano zombie di Jacopo Berti
Gli zombie. Al plurale, ovviamente. Da Romero al recente “Walking Dead”, non si conclude nulla a mettere in scena un singolo morto vivente, a meno di non farne il protagonista di amorazzi adolescenziali dove l’incubo del make-up artist è il protagonista maschile.
Perché, diversamente da vampiri vecchio stile e altre creature mostruose e orrifiche che hanno nell’unicità il loro punto di forza, gli zombie hanno un’identità collettiva. Innumerevoli per definizione, spinti da una fame insaziabile che imbratta di sangue i loro abiti da commesso o da impiegata, gli zombie sono espressione simbolica dell’uomo della società di massa e della sua spersonalizzazione. D’altro canto, incapaci o quasi di qualsiasi interazione attiva con l’ambiente, privi di intenzionalità e di comportamenti descrivibili in termini etologici, essi non sembrano condividere la loro forma di esistenza con gli umani o gli animali superiori ma con batteri, funghi e muschi, o, a essere generosi, con le piante.
Romero, sono tutti d’accordo, è il padre dello zombie moderno: nella “Notte dei morti viventi” (1968) il cadavere ambulante ha poco a che vedere con l’antenato haitiano e semmai deve qualcosa (o molto) al Matheson di “Io sono leggenda”, romanzo del 1954, o al suo primo adattamento cinematografico, “L’ultimo uomo sulla terra”, del 1964. Ma, nonostante gli illustri precedenti, il contributo e l’originalità di Romero sono fuori discussione. E fin qui sono cose di cui i cinefili e i fantascientisti hanno almeno sentito parlare.
Forse ai fantascientisti e ai cinefili di cui sopra sono noti anche rispettivamente “Il giorno dei trifidi”, romanzo di John Wyndham del 1951, e il film omonimo (ma in italiano “L’invasione dei mostri verdi”) del 1962. Pubblicata in Italia dapprima come “L’orrenda invasione” (Romanzi Urania n.3, 1952), e poi ristampata più volte da Mondadori fino all’edizione Oscar del 1975, per giungere alla nuova traduzione del 2004 per Fanucci, l’opera del britannico Wyndham è un illustre esempio di letteratura apocalittica e post-apocalittica che, quando vale – come in questo caso – è anche necessariamente fantascienza sociologica. Perché citarla in questo contesto? Perché c’è mancato veramente poco a che Wyndham non fosse, con questo romanzo, il padre degli zombie e del loro inserimento in un contesto post-apocalittico: è mancata una semplice operazione di sintesi. Ma andiamo con ordine, non prima di aver dato un vistoso SPOILER ALERT.
Nel “Giorno dei trifidi” l’umanità è stata colpita da una patologia dalle cause sconosciute e ora i “contagiati” assediano, spinti dalla fame, i pochi individui ancora sani. Uno stuolo di mostri senz’anima si raduna strisciando attorno agli ultimi resti di civiltà, attendendo paziente di uccidere e divorare il prossimo disperato costretto ad uscire dalla propria casa. Il problema è che l’umanità malata e i mostri striscianti non coincidono! La prima parte del romanzo è dedicata sostanzialmente alle conseguenze di un evento astronomico o celeste che ha reso ciechi quasi tutti gli esseri umani; i non vedenti, riuniti in gruppi numerosissimi, braccano i vedenti e li catturano affinché possano guidarli alla ricerca di cibo, costringendoli al paradossale ruolo di capi in catene. La seconda parte si svolge in un contesto in cui la popolazione dei ciechi è stata decimata da un’autentica pestilenza e i sopravvissuti devono fronteggiare il pericolo di una specie concorrente: i trifidi, forma di vita vegetale ma semovente, frutto di una manipolazione genetica “ante litteram”, che pur potendo – a quanto pare – sopravvivere solo di acqua, terra e fotosintesi, preferisce uccidere gli uomini con una sorta di arpione velenoso e assimilarli a piccoli brandelli. Entrambe le parti del libro hanno molto in comune con il survivalismo di matrice zombesca, e qui penso soprattutto a “Walking dead”: la vita resa possibile grazie a ciò che la società consumistica ha accumulato nei supermarket e nei magazzini, ma anche la successiva necessità a lungo termine di riscoprire i modi di produzione più arcaici; la ridefinizione di ciò che può essere considerato un comportamento etico soltanto in base a ciò che favorisca la sopravvivenza del gruppo e della specie; la progettazione e messa in pratica di nuovi e vecchi tipi di istituzioni e forme di convivenza sociale: dalle comunità di stampo religioso allo stato feudale, dal primitivismo tribale a forme di organizzazione simili alle utipie sei-settecentesche. Tutti questi concetti – che nel 1951 non erano ancora parte di un genere letterario così roconoscibile – sono illustrati abbastanza diffusamente: Wyndham ricorre a personaggi secondari (tra gli altri, un antropologo e una sorta di oratore) per metterli in luce senza però arrivare a insopportabili “spiegoni”.
Wyndham utilizza per quasi tutto il romanzo un tono medio, moderatamente coinvolgente, non indulgendo a descrizioni raccapriccianti o a eccessivi sentimentalismi. D’altra parte, a volte, si concede interessanti approfondimenti psicologici dei personaggi e descrizioni di più ampio respiro. La trama – nei limiti di un romanzo di fantascienza – è verosimile e lo sviluppo coerente e credibile. La struttura è binaria: le due tematiche del declino del mondo degli uomini e del sorgere di quello dei trifidi dialogano per tutto il romanzo ma si passano il testimone circa a metà della narrazione. Come si diceva, se tra le due parti del romanzo, ovvero tra la decimazione della razza umana e la comparsa di una mortale razza infestante, ci fosse stata una sintesi (probabilmente non così difficile da realizzare), Matheson e Romero avrebbero un diretto antecedente, e gli zombie dovrebbero essere ascritti tra i frutti della vivida ma morigerata e umoristica immaginazione britannica.
Nel “Giorno dei trifidi” la narrazione è in prima persona: il protagonista scrive il suo racconto per inserirlo in una “Storia della colonia”. Accampati sull’Isola di Wight come i partecipanti al festival che quasi vent’anni dopo contribuì a fare la storia del rock, i coloni lottano per la loro sopravvivenza e per portare avanti la storia del genere umano. E la fantascienza british lotta per la sua autonomia: come non riconoscere una rivendicazione (che insieme, naturalmente, è politica) nelle parole che uno dei personaggi principali rivolge ad una ingenua ragazza in attesa che giunga a salvarli la cavalleria?
«- Sentite – le disse Coker, in tono paziente. – Volete mettere gli americani nel dimenticatoio per un momento, per favore? Cercate di immaginare un mondo in cui non ci siano americani: ci riuscite?»