Il capitano William Stanaforth (Mark Strong) per tutta la vita ha cercato di superare non solo i propri limiti ma di essere al di sopra delle soglie imposte dalla natura umana, a valicare i confini della scienza. Avendo già visto e avendo già vissuto tutte le esperienze che il pianeta Terra potesse offrirgli, decide di compiere quel grande salto nel vuoto che l’intera umanità non era ancora riuscita a compiere, un passo verso la colonizzazione di Marte. Intraprende quindi un viaggio in solitaria, in contatto con la Terra tramite videocomunicazioni con la NASA e il suo fidato amico e collega Skinny (Luke Wilson), lungo 270 giorni, verso il pianeta rosso, verso l’ignoto, verso lo spazio profondo. Una missione apparentemente suicida, la cui programmazione è stata resa possibile esclusivamente grazie ad un reattore in grado di scomporre le particelle di sabbia ottenendo acqua potabile, progettato dal capitano stesso, indispensabile per ovviare alla mancanza di riserve idriche e quindi per portare la vita sul pianeta.
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival dove si è aggiudicato il NHK Award, Approaching the Unknown (2016), il debutto nel lungometraggio del regista Americano Mark Elijah Rosenberg è stato presentato al Trieste Science+Fiction Festival 2016 nella sezione Neon: Concorso Internazionale, nella quale vengono presentate opere prime seconde e terze di autori internazionali. Per motivi estetici e tematici, ma anche economici, il film rifiuta l’impalcatura immaginifica contornata da effetti speciali che caratterizza la gran parte delle produzioni Hollywoodiane, non rinunciando comunque ad alcune sequenze di grande impatto visivo rappresentanti la “vastità” e “densità” del cosmo. Guardando con occhio cinefilo e citazionista le opere che hanno formato il genere così come la propria infanzia e adolescenza, il regista riesce, tuttavia, ad evitare di farsi surclassare dai padri della fantascienza che tanto lo hanno ispirato. Il film ci apre le porte su uno scenario credibile, una realtà plausibile, in cui il viaggio verso Marte viene compiuto in una navicella spaziale angusta, dove si svolge quasi la totalità della narrazione, senza supercomputer di bordo, senza lettino criogenico, da una sola persona, i cui occhi riflettono paura e magia mentre si perdono nella contemplazione dell’infinito.
Un racconto personale e privato sull’ambizione di un uomo, con i propri dubbi, le proprie insicurezze, pronto a compiere un tentativo estremo al fine di provare, anche solo per un secondo, la meraviglia, l’esperienza di mettere piede in un luogo in cui nessuna forma di vita è mai vissuta o morta prima. Un viaggio verso l’ignoto in cui i pericoli non sono né fantasmi né creature aliene, ma i demoni interiori, la sfrontatezza e l’arroganza del protagonista che pensava di poter controllare la natura e gli elementi, ma che presto si deve rendere conto dei propri errori di calcolo e di coscienza.