Per due volte le strade del Festival della Fantascienza si sono incrociate con quelle di Arthur C. Clarke, lo scrittore inglese profeta dell’era spaziale di cui il prossimo 16 dicembre ricorreranno i cent’anni dalla nascita, nella cittadina di Minehead, nel Somerset.
La prima volta fu nel luglio del 1966, alla quarta edizione della manifestazione triestina, quando Clarke prese parte a una tavola rotonda sulla vita extraterrestre. Di mattino, in piena estate balneare, la sala della Camera di commercio era semivuota. Accanto a lui sedevano un altro scrittore di fantascienza, il suo vecchio sodale Harry Harrison, e Margherita Hack, da un paio d’anni direttore del nostro Osservatorio astronomico. Clarke parlò a braccio, con qualche provocazione scientifica sulla possibilità – un giorno – di viaggiare più veloci della luce. Veniva da Londra, dove aveva da poco cominciato la sua collaborazione con Stanley Kubrick per 2001 Odissea nello spazio. E nel buio di quel Cinema Filodrammatico, dove allora si proiettava la sezione retrospettiva del Festival, mi mostrò le prime foto di scena del film, con i due astronauti a bordo dell’astronave Discovery.
Clarke venne nuovamente invitato a Trieste nel 1971. A tre anni dall’uscita di 2001, i suoi libri spuntavano i contratti più ricchi nella fantascienza del tempo. Questa volta Clarke era presidente della giuria del Festival e fu al centro di un dibattito sui significati del film, che si tenne nella vecchia sede del Circolo della Stampa, in corso Italia. Un dibattito con i soliti intimi. Niente televisione, nessuna intervista, nessuna foto. Allora si usava così. A ripensarci oggi, è incredibile quanto poco risalto mediatico avessero allora questi eventi. Nonostante fossimo negli anni delle spedizioni Apollo sulla Luna.
Se il romanzo più noto di Clarke resta quel 2001 da lui scritto in contemporanea con la sceneggiatura del film, sono un centinaio i libri che Sir Arthur (fu nominato baronetto nel 1998) ci ha lasciato, tra narrativa e saggistica, tradotti in 40 lingue. Romanzi legati al sogno dello spazio (Le sabbie di Marte, Preludio allo spazio); all’evoluzione dell’uomo (Le guide del tramonto, La città e le stelle); al contatto con gli extraterrestri (il ciclo di Rama, Incontro con Medusa); alla tecnologia prossima ventura (Le fontane del Paradiso, con l’avveniristico ascensore spaziale).
Ma i meriti di Clarke vanno ben al di là della fantascienza. Fu presidente della British Interplanetary Society e nel 1945 pubblicò sulla rivista Wireless World un articolo tecnico in cui suggeriva di piazzare tre stazioni spaziali in orbita geostazionaria per le telecomunicazioni globali. Oggi, quell’orbita a 36 mila chilometri dalla Terra è detta anche Clarke orbit. E un suo libro del 1951, L’esplorazione dello spazio, venne usato da Wernher von Braun per convincere il presidente Kennedy che il viaggio sulla Luna era possibile.
Tre mesi prima della morte – avvenuta il 18 marzo 2008 in un ospedale di Colombo, Sri Lanka, dove viveva dal 1956 – aveva affidato a YouTube un video alla vigilia dei 90 anni (anzi: delle novanta orbite attorno al Sole, come preferiva dire). Seduto sulla sua sedia a rotelle, aveva espresso tre desideri: “Vorrei vedere qualche prova di vita extraterrestre. Vorrei vedere l’uomo rinunciare al petrolio e utilizzare fonti d’energia pulita. Vorrei vedere una pace duratura nel mio paese d’adozione, lo Sri Lanka”. Tre desideri che sono altrettante chiavi della sua esistenza: l’incontro con una cultura aliena, la fiducia in un futuro reso migliore dalla tecnoscienza, l’amore per l’isola che gli ha offerto le meraviglie delle immersioni subacquee lungo la barriera corallina e una visione buddhista della vita. A lui, agnostico da sempre, ma aperto al misticismo. Perché, come amava dire, “ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia.”