Lo scrittore di Fabio Calabrese
Il vecchio respirava a fatica, una sorta di sordo dolore chi si era solo in parte abituato, gli gravava sul petto. Sapeva che non c’era niente da fare. L’età, semplicemente l’età. Un essere umano non è fatto di acciaio, e a un certo punto, inevitabilmente, il suo organismo si logora. Il medico continuava a dire:
“Oggi ti vedo bene, ti riprenderai presto”.
Ma l’uomo sapeva che si trattava di una pietosa bugia. Tutte le cose prima o poi devono finire, e presto sarebbe toccato a lui. Stranamente, l’idea della cessazione della sua esistenza non gli incuteva paura, e non provava neppure un senso di risentimento, solo una placida rassegnazione. Poteva ritenersi soddisfatto: aveva vissuto una vita lunga e piena, quasi sempre in salute, non gli erano mancate le soddisfazioni né gli interessi da coltivare, aveva impiegato bene il suo tempo.
“Annie”, chiamò.
“Si, caro, sono qui”, rispose la moglie, “Cosa posso fare per te?”
“Niente di speciale”, rispose lui, “Vorrei solo che mi tenessi la mano”.
La donna allungò il braccio verso il capezzale del letto, fino a stringere la mano del marito.
“Robert, Vanda, Edward”.
I tre figli risposero all’unisono. Robert, il maggiore, venne da pensare al vecchio, era ormai sessantenne. Vanda, “la ragazza” aveva un paio di anni di meno, ed Edward, “il piccolino” aveva ormai anche lui varcato la soglia del mezzo secolo. Il marito di Vanda e la moglie di Edward non erano nella camera, erano di là in salotto a tenere a bada la turbolenta schiera dei nipoti.
Aveva una moglie devota con la quale aveva costruito un rapporto solido negli anni, tre splendidi figli che gli avevano dato molte soddisfazioni e qualche trascurabile grattacapo, e una congerie di nipoti vivaci e schiamazzanti che contribuivano a tenerlo in attivo dopo il pensionamento, e a farlo sentire vivo.
Per molti anni l’uomo aveva lavorato in un ufficio governativo dove era entrato dopo poco aver completato gli studi. Col tempo aveva fatto carriera, non una di quelle carriere esaltanti e fulminee, ma una progressione solida nelle responsabilità e anche nei miglioramenti economici, nel corso della quale non gli erano mancate né la stima dei superiori né l’amicizia dei colleghi.
La fonte principale della stima che aveva ricevuto, anche se non delle soddisfazioni economiche, però derivava da un’altra fonte, la sua attività di scrittore, di scrittore di fantascienza per la precisione.
Ricordava come era cominciato tutto, in una maniera per la verità alquanto singolare: tanti anni prima, si era trovato nella casa dei nonni in vacanza, e rovistando fra le vecchie cose in soffitta, aveva trovato dentro un baule un quaderno le cui pagine erano scritte con la grafia corsiva elegante di epoche passate, aveva l’apparenza di un diario, ma la storia che raccontava era davvero singolare.
Narrava di una spaventosa epidemia che anni prima avrebbe falcidiato la razza umana, riducendo l’umanità da miliardi di persone che popolavano il pianeta, a un gruppo sparuto di superstiti.
Ricordava di aver sbattuto le palpebre per l’incredulità: quella storia non corrispondeva per nulla a ciò che vedeva intorno a sé; poi capì, o gli parve di aver capito: suo nonno o chiunque fosse stato l’autore del diario, aveva voluto probabilmente scrivere un romanzo fantastico.
Si era immerso nella lettura della storia e ne era rimasto affascinato. I pochi superstiti si erano ritrovati a vivere in un’atmosfera di disfacimento e di decadenza, al punto tale che fra molti di loro, incapaci di vivere in un mondo così desolato, si erano verificati diversi casi di suicidio. Qualcuno a questo punto aveva avuto un’idea brillante: era stato costruito un super-computer che proiettava in tutto il mondo una realtà fatta di ologrammi che lo ripopolava di oggetti, animali, piante, persone, soprattutto persone, simulando il mondo che esisteva prima dell’epidemia.
In quel momento sentì una punta di scetticismo. Una storia del genere aveva qualche elemento di verosimiglianza, si poteva davvero scambiare un ologramma per un oggetto o, a maggior ragione una persona reale? Beh, qui l’ignoto autore aveva mostrato una punta di genialità.
Gli oggetti che noi riteniamo solidi, spiegava, sono in realtà composti in grandissima parte di vuoto, vuoto fra le molecole, fra gli atomi e, all’interno di essi, fra il nucleo e gli elettroni che li compongono. Ciò che ci dà l’impressione della solidità e l’impenetrabilità dei corpi, è solo una questione di repulsione elettrostatica. Ottenere lo stesso effetto con degli ologrammi non presentava particolari difficoltà.
Il computer era anche abbastanza potente e complesso da controllare il comportamento di miliardi di simulazioni olografiche in modo che non vi fosse una differenza riscontrabile con quello dei veri esseri umani. In questo modo, la riproduzione del mondo che era stato, si era sostituita alla tragica realtà.
Lo sconosciuto autore però avvertiva: la fine dell’umanità era solo rinviata: se un uomo o una donna senza saperlo si accoppiavano con una simulazione olografica, da un simile rapporto non potevano nascere figli, al massimo il computer poteva generare delle simulazioni olografiche che sarebbero passate per figli della coppia, modificandole nel tempo in modo da simulare la crescita di un essere umano. Allo stesso modo, poteva produrre in una donna la simulazione dei sintomi della gravidanza. In pratica con questo programma, invece di una fine in tempi brevi in un mondo atroce e squallido, spiegava l’autore, la nostra specie aveva scelto una più lunga, inconsapevole, serena agonia.
La trama della storia gli era parsa ottima, avvincente; con pochi ritocchi per renderla più letteraria, ne sarebbe venuto fuori uno splendido romanzo di fantascienza, e così fece, poi mandò il testo a un editore specializzato. Il romanzo fu pubblicato ed ebbe un discreto successo. Si sentì in colpa, perché si rendeva conto di aver commesso tutto sommato un plagio, anche se altrimenti quella bella trama sarebbe rimasta forse per sempre ad ammuffire nel fondo di un baule, così iniziò a scrivere altre storie, romanzi e racconti che furono più o meno tutti regolarmente pubblicati.
Cominciò a farsi un nome, ricevette diversi premi, fu ospite d’onore a diverse conventions di fantascienza, comparve più di una volta in televisione, concesse interviste, firmò autografi.
Ogni tanto lo tormentava un dubbio: e se quello che aveva scritto fosse stato semplicemente reale? Se quel che aveva trovato in quel vecchio baule fosse stato davvero un diario col resoconto di eventi passati di cui si era voluta cancellare la memoria?
In fondo, si chiedeva, incontrando una qualsiasi persona, come facciamo a sapere se dietro la sua fronte c’è davvero una soggettività simile alla nostra, o invece solo il programma di un computer in grado di far replicare a quella simulazione i comportamenti umani?
Ma un conto sono i dubbi metafisici, e un altro conto è la vita concreta, una vita che procedeva serena e regolare, e che era stata ricca e longeva.
Si rivolse alla moglie.
“Mia cara”, disse, “ti prego, fai entrare tutti!”
Annie chiamò dentro la stanza il genero, la nuora e i nipoti.
Il vecchio passò lo sguardo in giro, abbracciando con esso tutti quanti.
“Miei cari”, disse, “vi voglio bene”.
Poi chiuse gli occhi abbandonando la testa sul guanciale e lasciandosi andare.
Il computer centrale prese una decisione: ora che l’ultimo essere umano era morto, il programma non serviva più.
Di colpo, miliardi di simulazioni di esseri umani scomparvero, lasciando un pianeta deserto e silenzioso.
Fabio Calabrese. Nato a Trieste il 12 novembre 1952, laureato in filosofia, docente di scuola superiore, coniugato, due figlie. Scrive narrativa e saggistica di fantascienza da moltissimi anni. Negli anni ’70 ha dato vita assieme a Giuseppe Lippi alla fanzine Il Re in giallo, nel 2000 assieme a Roberto Furlani alla webzine Continuum. Ha pubblicato racconti e articoli su quasi tutte le riviste professionali, amatoriali e on line del settore. Ha all’attivo tre romanzi: “La spada di Dunnland”, “Uomini e sauri” e “L’orizzonte di cristallo”. Quest’ultimo è stato finalista al premio Urania nel 2015, più svariate antologie personali. Ha collaborato alla stesura dei due dizionari del mondo di Tolkien, quello Rusconi del 1999 e quello Bompiani del 2003. Ha pubblicato all’estero sulle riviste Foundation (Gran Bretagna), Fantaztyka (Polonia), Galaxies (Francia).