Negli ultimi due anni quei vecchi leoni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il film d’apertura l’anno sempre imbroccato, non limitandosi tra l’altro a proporre degli ottimi film, ma selezionando opere che sono poi diventate simbolo ed esempio dell’annata cinematografica che quei film avevano aperto.
Certo è che scegliere qualcosa che fosse all’altezza di film come Gravity di Alfonso Cuaron e Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu non era un compito facile e i cinefili più sognatori speravano in un altro messicano, Gulliermo del Toro con Crimson Peak, a chiudere la tripletta. L’ardua scelta è alla fine ricaduta su Everest dell’islandese Baltasar Kormàkur (101 Reykjavik, Cani sciolti) e ancora una volta, il Festival più antico del mondo ha dimostrato di essere, seppur in maniera meno evidente rispetto ai due film sopracitati, incredibilmente inserito nell’idee e nelle tendenze che emergono da quella tipologia di cinema hollywoodiano che attira le attenzioni di milioni di spettatori in tutto il globo.
Ispirato dagli incredibili eventi verificatisi durante un tentativo di raggiungere la vetta della montagna più alta del mondo, Everest documenta il viaggio di due diverse spedizioni, messe alla prova da una delle più furiose tempeste di neve mai conosciute, focalizzando la propria attenzione su dei personaggi che non sono degli abili scalatori, ma persone comuni mosse dal desiderio di dimostrare a se stessi o agli altri di essere capaci di compiere imprese straordinarie. La centralità dell’uomo e del suo desiderio di misurare i propri limiti fisici assume in un’epoca come la nostra un valore simbolico decisamente interessante: se da una parte i supereroi di casa Marvel ci raccontano di un mondo in cui la fusione tra uomo e tecnologia rende le persone simili a divinità onnipotenti, dall’altra iniziano a farsi largo una serie di blockbuster – capitanati dai Fast and Furious, San Andreas e il recente Mission: Impossible 5 – in cui sono invece le persone “normali” a ribadire con le proprie azioni la centralità del corpo umano e dei legami famigliari. E negli ultimi tempi sembra così necessario intavolare questa tipologia di discorso che un fatto di cronaca risalente ormai a 20 anni fa diventa immediatamente il miglior punto di partenza per poter parlare dell’uomo di oggi, il cui progressivo distacco da ogni percezione fisica e materiale della realtà – causato dall’irrefrenabile fusione con le apparecchiature elettroniche (dal profetico Videodrome ad Ex Machina) – reclama a gran voce storie che abbiano il compito di riportare il corpo umano al centro di tutto. Così, nell’idea di mondo che emerge dal film di Kormàkur, il desiderio dell’uomo di continuare a dominare la natura sembra ormai essere un’utopia e dunque, dopo quasi un’ora in cui il regista prepara i suoi personaggi e gli spettatori ad affrontare questa gigantesca sfida, ci si ritrova catapultati in una terribile tempesta che non lascia alcuna via di scampo e che ben presto trasforma uno dei luoghi più meravigliosi della Terra in un ambiente ostile e alieno, per certi versi accostabile a scenari lunari o marziani, in cui per le persone non sembra esserci alcuna possibilità di sopravvivenza.