Arthur C. Clarke, autore di 2001: Odissea nello spazio disse “Esistono due possibilità: o siamo soli nell’universo, o non lo siamo. Entrambe sono terrificanti”. Per allestire la propria avventura spaziale, James Gray parte da qui. Dall’idea che viaggi nello spazio sono belli e terrificanti al tempo stesso; dal presupposto che le esplorazioni fuori dai confini terrestri possano essere semplicemente un modo per fuggire. In questo senso il film abbraccia una dimensione intima: la storia di un padre e di un figlio. Nella speranza, dice il regista, “che le persone capiscano che dobbiamo apprezzare le esplorazioni e amare la Terra. Bisogna preservare la Terra e i legami umani, a ogni costo”.
L’idea di viaggio nello spazio, secondo James Grey, può essere bella e terrificante al tempo stesso: un’occasione per scoperte sensazionali, ma anche un semplice modo per fuggire dalla propria realtà. Lo spazio in cui il protagonista è costretto a muoversi è interamente colonizzato dall’uomo. Le aspettative sul viaggio nello spazio sembrano essere affossate da chioschi di bibite e negozi di magliette presenti sulla base lunare. Come se tutto fosse una mera ricostruzione di ciò da cui l’uomo vorrebbe scappare sulla Terra.
Un universo incredibilmente umanizzato, che ha condotto James Grey a trasportare questo secondo viaggio oltre i confini del conosciuto, nella dimensione molto intima della storia di un padre e di un figlio. In un certo senso la figura del padre di Ad Astra è immediatamente riconducibile a quella del protagonista di Civiltà perduta: due personaggi che hanno seguito così tanto le proprie ossessioni finendo per autodistruggersi e, nel caso dell’avventuriero spaziale, mettendo a repentaglio il destino dell’umanità intera. “La terra? Lì non c’è mai stato niente per me. Non mi è mai importato niente di te, di tua madre, delle vostre piccole idee. Sono 30 anni che respiro quest’aria, che mangio questo
cibo, sopportando queste avversità. E neanche una volta ho pensato di tornare a casa” dice nel finale al figlio. È accecato dalla propria missione, dal voler scoprire una forma di vita aliena nell’universo, senza mai arrendersi all’evidenza che l’uomo è solo in questo universo. Ha saputo vedere quello che non c’era e non ha visto cosa aveva davanti. Ha fotografato mondi strani e distanti più in dettaglio di chiunque altro: erano bellissimi, magnifici, pieni di maestosità e meraviglia.
Ma, sotto la loro superficie sublime, non c’era niente. Né amore né odio. Né luce né oscurità.